I mantra sono attestati in alcuni dei primi documenti della storia religiosa: gli inni del Rigveda, antichi di millenni.
La totalità dei mantra induisti, conservata in forma scritta, è contenuta nei Veda. Ma sono presenti anche nella tradizione brahmanica, in quella tantrica e persino in altre religioni indiane come buddismo e jainismo.
Pratiche assimilabili possono essere rintracciate, con nomi diversi, anche nella tradizione cattolica – si pensi alla recita del rosario – e nel corpus di insegnamento musulmano – per esempio il dhikr – il dove è di massima importanza la recita in arabo, corretta e a voce alta, del Corano.
Secondo le Upanishad – antiche scritture indiane – la dimora originaria dei Mantra è Parma Akasha – o Etere Primordiale. Lì i Mantra si trovano a uno stato “puro”, come nuclei di energia spirituale. Questi mantra potevano perciò in origine essere percepiti solo dai Rishi – o veggenti – che li tradussero in una struttura udibile di sillabe, suoni, ritmo e melodia. Nella tradizione tantrica il Rishi è uno dei sei aspetti fondamentali del mantra.
La recitazione di un mantra comporta una serie di effetti sia psicologici che fisici. Come ogni altra forma di meditazione profonda, il suo principale effetto è quello di calmare il turbinio dei pensieri e delle emozioni. In effetti si può dire che l’esecuzione di un Mantra ha, nella spiritualità induista, il medesimo scopo del koan nella dottrina Zen o del mandala nel buddismo tibetano: attraverso la concentrazione, focalizza e acuisce la abilità mentali.
L’esecuzione rituale del Mantra prevede l’utilizzo del mala, una sorta di rosario tradizionalmente costruito in legno di sandalo o di tulsi oppure con semi di rudraksha. Il mala è costituito di 108 perle, che aiutano il devoto a tenere il conto delle ripetizioni eseguite.
108 è un numero sacro: l’1 rappresenta il collegamento diretto che unisce il piano divino a quello umano, lo 0 simboleggia invece la completezza perfetta della Creazione, mentre l’8 ricorda l’infinito e l’eternità – o ciclicità – del tempo.
Tra le 108 perle ne esiste una speciale, chiamata Monte Meru: essa segna il punto in cui gli estremi della catena del mala sono stati uniti. Quando nell’esecuzione delle ripetizioni del mantra il devoto raggiunge questa perla, dovrebbe girare il mala e ricominciare i conteggi proseguendo nella pratica sgranando il mala nella direzione opposta. Come ogni oggetto utilizzato nel corso delle meditazioni – per esempio scialli per coprirsi le spalle o il capo – anche il mala assorbirà nel tempo parte dell’energia spirituale sviluppata, caricandosene.
Tradizionalmente, quando si desideri indossare il mala, il Monte Meru viene portato sul davanti, a livello del cuore, a indicare la devozione per la pratica spirituale.
I testi antichi contengono molte e precise indicazioni riguardo ai rituali associati alla creazione, consacrazione e distruzione dei mala.
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