Curiosamente e a dispetto dell’importanza della spiritualità in Tibet, non esiste, in tibetano, una parola che potrebbe tradurre il termine “religione”.
In Tibet convivono due grandi tradizioni religiose: il buddhismo – chos – e il bonismo – bon – ed entrambe sono vissute più come dottrine – termine che meglio traduce e rispetta il significato della parola sanscrita originaria dharma – che non come religioni in senso occidentale.
La matrice sciamanica: il Bon delle origini
Fino al IX secolo, il termine bon-po, derivato dal verbo bon – “invocare, salmodiare” – era impiegato esclusivamente per designare una precisa classe sacerdotale, specializzata nell’esecuzione di riti che richiedevano la recitazione di formule esoteriche, spesso cantate.
Il canto Bon-po è contraddistinto da un testo spesso nell’antica lingua dello Zhang Zhung, diversa dal tibetano. L’impostazione vocale dei monaci Bon-po trova molti punti di contatto con quella del canto liturgico Buddhista tibetano – come per esempio l’impiego della parte più grave del registro basso della voce – pur mantenendo le sue specificità.
La religione autoctona tibetana era probabilmente un complesso di pratiche e credenze poco elaborate dal punto di vista speculativo e con diverse componenti di natura sciamanica; non sembra un caso che il Tibet si trovi geograficamente in un’area limitrofa al locus classico dello sciamanesimo, l’area siberiano-centroasiatica.
Sembra inoltre che essa non possedesse alcun canone di scritture sacre, ma fosse tramandata per via orale: se così non fu, i testi sono andati comunque integralmente perduti.
Questa religione sciamanica originaria era costituita da un insieme di pratiche cultuali arcaiche, a metà tra l’animismo e lo sciamanesimo. Lo svolgimento dei riti richiedeva talvolta anche il sacrificio animale – soprattutto yak, cavalli e ovini – e sembra – anche se le fonti non sono tutte concordi su questo punto – anche umani, anche se molto più raramente. Le pratiche sacrificali continuarono per un lungo periodo, finché l’etica buddhista non ottenne che fossero ripudiate del tutto.
Successivamente si assistette all’arrivo, dall’odierno Pakistan, di alcuni sacerdoti bon-po e gshen, appositamente invitati per officiare il rito funebre dell’ottavo Re della dinastia Gri-gumb bTsan-po.
Questi sacerdoti erano specializzati proprio nell’esecuzione di riti funebri, nelle arti mantiche – cioè le arti connesse alla previsione del futuro -, nei rituali di giuramento e nelle salmodie indirizzate agli dei ancestrali. Anche qui non sembra casuale la somiglianza tra il termine tibetano ghsen e i termini shaman – in tunguso – e ch’am – in paleo siberiano – utilizzati per designare le medesime pratiche cultuali.
I riti funebri e le leggende sulla dinastia reale
I riti funebri, se connessi alla persona del Sovrano, rivestivano un’enorme importanza.
Infatti nell’antica religione tibetana, il sovrano veniva considerato sommamente saggio, retto e giusto, in quanto discendente diretto degli Dei ancestrali.
Racconta il mito che il capostipite della dinastia bTsan-po scese dalle sfere celestiali utilizzando la “Scala dei Dmu” che veniva smontata, dopo l’utilizzo, gradino per gradino. Rimaneva tuttavia un legame di luce iridata tra i cieli e la terra, la cosiddetta “Fune di Dmu”, attraverso la quale i Sovrani, in occasione del loro decesso, si reintegravano agli empirei dai quali erano discesi, non lasciando traccia di alcuna delle loro spoglie mortali.
Gri-gumb bTsan-po però fu il primo Re a non poter risalire, in quanto, nel corso di un combattimento contro alcuni suoi consiglieri, fu lui stesso a recidere la fune per errore.
Da quel momento in poi, i Re cominciarono a ricevere sepoltura: i resti venivano inumati e furono costruiti grandi mausolei tumulari.
I riti funebri, curiosamente, sembra fossero assai simili a quelli dell’antico Egitto: per garantire una confacente permanenza nell’aldilà, venivano tumulati, insieme ai Re, i loro animali preferiti e i loro servitori, a volte qualche familiare; nelle tombe furono ritrovati oggetti di varia natura, oltre a preziosi e gioielli.
Origini del Buddhismo moderno in Tibet
Solo verso la fine dell’ VIII secolo cominciano a farsi sentire gli influssi più classicamente Buddhisti: molti esponenti bon-po lasciarono il Tibet e l’antica religione fu messa al bando. Seguì un lungo periodo di sincretismo religioso in cui cominciarono ad affermarsi concetti filosofici prettamente buddhisti – karma, nirvana, samsara, sunyata, boddhicità, moksa, triratma, per citare i più importanti – oltre a pratiche buddhiste del tutto nuove e precedentemente sconosciute – quali la meditazione e l’ordine conventuale.
Oggi bonisti e buddhisti condividono gran parte delle componenti dei loro sistemi religiosi, pur permanendo alcune differenze, in realtà più formali che di contenuto. Al punto che alcuni studiosi considerano il bonismo moderno come una scuola eterodossa del Buddhismo tibetano stesso.
Scritti bonisti e antico canone Buddhista
La letteratura bonista conosce due classificazioni degli insegnamenti:
- i Quattro Portoni col tesoro Cinque: la classificazione più antica
- i Nove Veicoli Graduali.
I Quattro Portoni col Tesoro Cinque
- Le Acque Bianche: incantesimi e pratiche esoteriche analoghe a quelle dei mezzi inferiori del Buddhismo Vajrayana
- Le Acque Nere:pratiche oracolari e di predizione del futuro, riti di guarigione, riti escatologici e cerimonie funerarie
- Il Paese di ’Phan: equivalente alla dottrina della prajnaparamita del Buddhismo Mahayana, inclusa la regola monastica
- Il Precettore: sui precetti dottrinali più importanti
- La Sommità: le generalità delle quattro categorie precedenti.
I Nove Veicoli
Questa classificazione si divide in due parti: il bon della causa – il più distante dalla concezione buddhista, ma molto vicino alle credenze e alle pratiche popolari – e il bon dell’effetto, che appare più allineato all’antica tradizione del buddhismo.
Il bon della causa include:
- Lo gshen dei sortilegi: comprendente pratiche medianiche e tecniche di divinazione, predizione del futuro, astrologia e diagnosi psicosomatica. In pratica equivale al Portone delle Acque Nere della precedente classificazione.
- Lo gshen della realtà apparente: comprendente rituali propiziatori e pratiche di purificazione. Culto delle diverse divinità per assicurarsi fortuna, prosperità e protezione fisica e mentale.
- Lo gshen dei prodigi: riti e pratiche per eliminare e neutralizzare le forze ostili e i nemici – visibili e invisibili – fino a confinarli in una dimensione di innocuità.
- Lo gshen dell’esistenza: riti per ritardare la morte e pratiche per assicurarsi un passaggio sereno nell’aldilà quando il momento sia giunto.
Il bon dell’effetto comprende invece:
- il mezzo dei fratelli laici: pratiche etiche – tra cui i decaloghi delle azioni virtuose e peccaminose – e devozionali indirizzate ai laici e al clero secolare
- il mezzo dei contemplativi: condotta e disciplina dei monaci pienamente ordinati
- il mezzo dell’A bianca: le dottrine dello yogatantra e del mahayoga del Buddhismo Tantrico, l’utilizzo di mandala e di particolari tecniche meditative, alcune delle quali sono incentrate sull’A – l’ultima lettera dell’alfabeto tibetano – punto omega e simbolo dello stato d’illuminazione.
- Il mezzo dello gshen primordiale:elementi di connotazione sessuale
- Il mezzo insuperabile: oltre i limiti del processo di causalità stessa.
Liberamente tratto da: Ramon N. Prats – “Le religioni del Tibet” – in “Buddhismo” – a cura di Giovanni Filoramo,
Laterza editore, 2001
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