Il Buddhismo arrivò in Giappone attraverso i profughi coreani che, a partire dal IV secolo, lasciarono il loro Paese per motivi politici, portando con sé manufatti e immagini buddhiste.
Inizialmente questi oggetti non furono neppure considerati oggetti religiosi: abbiamo testimonianze di molti oggetti di uso comune con l’effige del Buddha, come per esempio mobili, specchi, complementi d’arredo e gioielli.
Buddhismo in Giappone: la prima fase
L’accoglienza della nuova religione non fu pacifica: mentre la famiglia Soga, progressista e moderna, si schierò a favore del buddhismo, la famiglia Monobe, che rappresentava la classe militare e più conservatrice, aveva una posizione fortemente contraria. Sfortunatamente proprio in quell’ epoca scoppiò una grave epidemia, e i Monobe persuasero le autorità che gli dei shintoisti si fossero adirati contro il Paese: questo portò alla distruzione di molte immagini e santuari buddhisti.
Più tardi il Principe Shotoku (574-622 d.C.), istruito da due monaci buddhisti coreani, divenne un devoto buddhista: a lui sono attribuiti anche tre commentari ed altrettanti sutra.
Questo buddhismo originario venerava soprattutto la figura del Buddha Sakyamuni: attraverso la preghiera i devoti credevano di poter ottenere vantaggi materiali quali guarigioni o espiazione dai peccati commessi.
Un rituale caratteristico era rappresentato dall’ hojo – la messa in libertà di uccelli o di altri piccoli animali selvatici – che simboleggiava proprio la liberazione dai peccati. Pratica frequente era anche il Sai-e – l’astinenza dai cibi prelibati, e specialmente dalla carne.
Per una panoramica più generale sul buddhismo in estremo oriente, si veda l’approfondimento relativo al buddhismo Chan e Zen.
Buddhismo in Giappone: rapporti con lo Shintoismo
Un aspetto importante del buddhismo giapponese è il cosiddetto Shimbutsu-shugo, ossia la fusione dello scintoismo con il buddhismo.
Gli dei shintoisti erano esseri misericordiosi, pronti a intervenire per la salvezza degli esseri umani, e potevano manifestarsi sotto l’aspetto di dei, animali sacri o esseri illuminati. L’analogia con i bodhisattva era pertanto fortissima.
Alcuni monaci buddhisti acquisirono con il tempo la fama di essere dei bodhisattva: l’esempio più lampante fu Gyogi, un bonzo itinerante, che non si limitò a predicare gli insegnamenti buddhisti, ma istruiva i contadini sui lavori della campagna, su come curare le malattie, sulle tecniche di costruzione di ponti ed impianti di irrigazione. Molti monaci seguirono questo esempio: fu così che il buddhismo mise radici profonde e fertili nel cuore del popolo giapponese.
Buddhismo in Giappone: il periodo Heian
Una caratteristica distintiva del periodo Heian (794-1185) fu l’affermarsi del sistema chiamato insei : un imperatore rinunciava al trono in favore di un figlio minorenne, si costituiva reggente e si ritirava in un monastero buddhista – in – da dove poteva governare – sei – il paese, libero dagli intrighi di corte. Il tempio ne guadagnava in reputazione e in aiuti finanziari.
Durante il periodo Heian si affermarono due importanti correnti principali, grazie anche al contatto diretto con il buddhismo cinese: la setta Tendai e quella Shingon, alle quali si aggiunse la dottrina del Buddhismo amidista.
Tra il 1600 e il 1800 si affermò in Giappone, il cosiddetto sistema danka : tutte le famiglie di un territorio erano assegnate a un tempio, e il bonzo in carica ne comunicava la lista alle autorità locali. Il bonzo era spesso sposato e, in questo ufficio “anagrafico” gli succedeva normalmente il figlio primogenito. In mancanza di un figlio maschio, una delle figlie si sposava con un giovane disposto a farsi bonzo: il giovane veniva così adottato dalla famiglia e prendeva il casato del suocero. Le mansioni del bonzo erano assimilabili a quelle dei nostri preti di parrocchia : celebrava funerali e insegnava ai bambini la dottrina buddhista. A questo si aggiungeva la gestione della Tera-koya, una sorta di scuola di rione in cui veniva insegnato ai bambini a leggere e scrivere. Fu propri grazie a questo sistema che l’analfabetismo scomparve in Giappone, sia in città che in campagna, molto prima che in Europa.
In realtà questo sistema fu ideato per ostacolare la conversione della popolazione al cristianesimo: chi non frequentava il tempio veniva convocato e interrogato. Se cristiano gli veniva chiesto di rinnegare la sua fede. Chi si fosse rifiutato poteva essere anche ucciso. Tuttavia molti cristiani, nella loro semplicità, trovarono il modo per sottrarsi alle persecuzioni: essi cominciarono a usare nelle loro preghiere le immagini del bodhisattva Guanyin, che per loro rappresentava la Vergine Maria. Ne derivò la figura sincretica di Maria-Kannon.
Buddhismo in Giappone: la scuola Tendai
Il fondatore della corrente Tendai fu Saicho (767-822) che viaggiò lungamente in Cina, anche come membro di missioni diplomatiche ufficiali.
Tale scuola si fonda principalmente sul Sutra del Loto, con l’aggiunta di alcuni elementi esoterico-tantrici, la meditazione di tipo Zen e la devozione pietistica di matrice amidista.
I vari templi Tendai che sorsero in questo periodo organizzarono il monachesimo militare dei Sohei – letteralmente “monaci-soldati” – che all’ inizio avevano soltanto il compito di mantenere l’ordine all’ interno dei monasteri e proteggerli da eventuali attacchi esterni, ma che in seguito divennero veri e propri eserciti, molto ben armati e addestrati, fino a combattere vere guerre – veramente spietate – contro eserciti di altri monasteri.
Buddhismo in Giappone: la scuola Shingon
Per quanto invece attiene il buddhismo Shingon, esso molto deve al Buddhismo Tantrico esoterico. In particolare l’idea che l’illuminazione si raggiunga solo una volta che sia cessato il ragionamento razionale e al suo posto venga utilizzata la meditazione su immagini simboliche, quali mandala o thanka.
La dottrina dello Shingon, con il suo fitto universo di simboli visivi, divenne una sorgente inesauribile di opere d’arte.
Buddhismo in Giappone: la corrente Nichiren
Nichiren (1222-1282) proclamò la supremazia assoluta del Buddha Sakyamuni e del Sutra del Loto. Il suo atteggiamento, come quello della scuola da lui fondata, fu sempre molto intransigente. Incapace di accettare compromessi di qualunque tipo, creò situazioni di tensione, quando non di aperto conflitto, con praticamente tutte le altre scuole buddhiste. Il modo di procedere dei seguaci più ortodossi, soprattutto nei confronti delle altre scuole buddhiste, era formulato con l’espressione fuju-fuse, che letteralmente significa “niente dare, niente ricevere”: questa direttiva vietava esplicitamente ai monaci Nichiren di avere contatti e scambi con monaci, laici o seguaci delle altre scuole. Inoltre non solo i monaci, ma anche i loro familiari dovevano diventare fedeli della setta. Quando un signore feudale si convertiva alla dottrina Nichiren, egli era tenuto, con ogni possibile mezzo, a persuadere a convertirsi tutti i suoi sudditi, contadini, artigiani o soldati, e tutti coloro che vivevano nel suo feudo, convincendoli ad accettare la dottrina del “Nam-myoho-ren-ge-kio”.
Da Pier Paolo Del Campana “Il buddhismo in Giappone” in “Buddhismo” – a cura di Giovanni Filoramo,
Laterza editore, 2001
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